Pasqua
“Rinati dall'acqua”
Commento alla terza lettura della Veglia: Es 14
Il simbolo dell’acqua ci ha guidati attraverso buona parte della
liturgia di questa Quaresima; nella liturgia della notte di Pasqua esso
trova la sua espressione forse più significativa; basti pensare
alla liturgia battesimale. La ricchezza dei testi della Veglia pasquale
è immensa; ci limitiamo così a fermarci su una sola delle
nove letture proposte, il celebre testo del passaggio del mare, nel quale
il simbolo dell’acqua è predominante. Questa terza lettura
della Veglia ci fa rileggere ogni anno il capitolo quattordicesimo del
libro dell’Esodo; si tratta di una lettura assolutamente centrale
nell’economia della liturgia pasquale, un brano che non si può
mai omettere (nessun brano della Veglia, lo ricordiamo, dovrebbe essere
omesso, neppure per pretese ragioni di frettolosità pastorale!).
Il brano liturgico proposto come terza lettura elimina tutta la prima
parte del capitolo (cioè Es 14,1-14), nella quale il narratore,
dopo averci presentato in anticipo il progetto di Dio (Es 14,1-4), ci
ha descritto con grande drammaticità l’esercito del faraone
lanciato all’inseguimento degli Israeliti e quindi la loro reazione
di paura (Es 14,5-10). Come avviene sempre nel racconto esodico, il popolo
d’Israele se la prende con chi si è preoccupato di renderlo
libero: con Mosè e con Dio stesso (Es 14,11-13); meglio infatti
essere schiavi del faraone in Egitto, con la pancia piena, che liberi
in un deserto che sembra promettere soltanto morte. Il brano liturgico
si apre con l’invito di Dio, rivolto a Mosè (v. 14), perché,
eliminata ogni paura, inizi con Israele quella traversata che porterà
il popolo alla libertà.
Non è questa la sede per fermarci sui dettagli di carattaere storico-letterario
che sarebbero comunque necessari per comprendere un testo problematico,
che rivela la presenza di due o forse tre tradizioni diverse, non sempre
perfettamente armonizzate tra loro e spesso facilmente distinguibili.
A noi interessa in questa sede il risultato finale, un testo che ha comunque
una sua coerenza interna e una drammaticità che ancora oggi riesce
ad affascinare chiunque lo ascolta con attenzione. Fermiamoci allora sul
tema che più ci interessa, in relazione al simbolo dell’acqua,
la traversata del mar Rosso; si faccia il conto di quante volte i termini
“acqua” e “mare” compaiano nel racconto!
Il racconto del passaggio del mare ci viene narrato attraverso due momenti
diversi, ciascuno dei quali è preceduto da un discorso di Dio,
che serve a mettere in luce il senso degli avvenimenti ascoltati. Così,
dopo le parole rivolte dal Signore a Mosè (vv. 15-18), abbiamo
la descrizione del movimento di Israele prima verso il mare e poi all’interno
del mare stesso (vv. 19-25). La notte avanza e, calato il buio, la colonna
di nubi impedisce agli Egiziani di avvicinarsi a Israele. Solo in piena
notte Israele attraverserà il mare.
In una prima tradizione (v. 21a), le acque si abbassano sospinte dal
vento, mentre Israele passa a guado; secondo la tradizione più
conosciuta, invece (vv. 21b-22) le acque del mare si dividono in due muraglie:
Israele vi passa nel mezzo, mentre l’esercito egiziano viene annientato
dall’acqua che ritorna alla sua posizione abituale (v. 23). In una
terza tradizione (vv. 24-25), invece, non vi è nessun inseguimento,
perché l’esercito egiziano viene frenato da Dio stesso.
Il v. 26, con un nuovo discorso del Signore, introduce l’ultima
parte del racconto (vv. 26-31). Sul far del mattino la salvezza è
ormai giunta; l’esercito egiziano è annientato e Israele
si scopre al sicuro, al di là del mare. “Israele vide la
mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto
e il popolo temette il Signore e credette in lui e nel suo servo Mosè”
(v. 31). L’intero episodio si chiude così sottolineando la
centralità della fede.
Il cammino di Israele attraverso le acque del mare è chiaramente
un cammino dal valore profondamente simbolico, come appare molto bene
dal canto dell’Exultet pasquale e dal testo della benedizione dell’acqua
lustrale. Ciò che è accaduto per Israele diviene immagine
di ciò che accade ancora sia al popolo ebraico sia ai credenti
in Cristo. Una prima simbologia contenuta in Es 14 è quella di
carattere temporale: il racconto si svolge dal tramonto all’alba,
passando attraverso la notte, seppur rischiarata dalla colonna di nubi
che nella tradizione giudaica diviene immagine della Legge. Israele passa
così dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, secondo una
simbologia ben rispecchiata dalla stessa liturgia della Veglia.
Una seconda simbologia è di carattere spaziale: Israele si muove
da ovest (il tramonto) verso est (l’alba) attraverso le acque del
mare. Non è necessario attardarsi in spiegazioni di ordine storicistico;
al narratore non interessa la precisione geografica e, come sappiamo bene,
è molto difficile, se non quasi impossibile, ricostruire un’ipotetica
successione dei fatti e comprendere a quale “mar Rosso” il
testo si stia riferendo. Più chiaro, invece, è capire il
senso della descrizione esodica: Israele passa attraverso le acque di
un mare che diventa come il simbolo di un oceano primordiale, del caos
che tutto vuole distruggere, della situazione del mondo precedente all’atto
creativo di Dio (cf. Gen 1,2). Le acque del mare, che normalmente incutono
terrore agli Israeliti, fanno emergere questo stesso popolo verso la terra
della libertà. L’esercito egiziano, che aveva creduto di
poter dominare il mondo con la sua forza e con il suo esercito, viene
sconfitto senza colpo ferire; la libertà è ottenuta senza
alcuna battaglia, senza che Israele debba impugnare un arma. L’unico
attore è Dio stesso e le acque del mare divengono immagine della
natura che si pone al suo servizio per liberare gli oppressi dalla loro
oppressione.
Il risultato della salvezza ottenuta è, come si è visto,
l’atto di fede compiuto dal popolo (14,31) che contrasta con il
terrore iniziale. Non dimentichiamo però una seconda reazione d’Israele,
il canto di gioia intonato da Mosè (Es 15) e guidato da Miriam
e dalle donne (Es 15,20-21), canto che la liturgia ci propone al posto
del salmo responsoriale. Il popolo rinato dall’acqua è un
popolo che non è più schiavo delle sue paure, che non è
più inseguito dal faraone, che può finalmente cantare la
libertà che Dio gli ha donato. In questa notte di Pasqua la Chiesa
intera è chiamata a vincere la paura che i tanti faraoni di oggi
ancora incutono al mondo e cantare così la libertà del credente.
Vincere la paura e entrare nella casa della vera libertà, dove
il faraone è ormai sepolto dalle acque del mare: tutto questo,
nella notte di Pasqua, non è soltanto una pia speranza, è
invece la realtà creata in noi dal battesimo. Il tema dell’acqua
ritorna infatti, proprio in questa chiave, nell’epistola, tratta
dal capitolo sesto della lettera ai Romani. “Fratelli, non sapete
che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati
nella sua morte?”. Essere immersi nelle acque del battesimo è
un immergersi nella morte, come avvenne a Israele nelle acque del mar
Rosso, per emergere tuttavia alla vita: “ma se siamo morti con Cristo,
crediamo che anche vivremo con lui”. Dalle acque del battesimo,
come da quelle del mar Rosso, emerge un uomo rinnovato, libero non soltanto
dall’oppressione dei vari faraoni ancora presenti nel mondo, ma
libero dal peccato, come Paolo ci ricorda. Per questo “anche noi
possiamo camminare in una vita nuova”.
Exultet
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