La Vita Umana
Morale
«Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»
(At 5, 29):
la legge civile e la legge morale
Una delle caratteristiche proprie degli attuali attentati alla vita umana
— come si è già detto più volte — consiste
nella tendenza ad esigere una loro legittimazione giuridica, quasi fossero
diritti che lo Stato, almeno a certe condizioni, deve riconoscere ai cittadini
e, conseguentemente, nella tendenza a pretendere la loro attuazione con
l'assistenza sicura e gratuita dei medici e degli operatori sanitari.
Si pensa non poche volte che la vita di chi non è ancora nato o
è gravemente debilitato sia un bene solo relativo: secondo una
logica proporzionalista o di puro calcolo, dovrebbe essere confrontata
e soppesata con altri beni. E si ritiene pure che solo chi si trova nella
situazione concreta e vi è personalmente coinvolto possa compiere
una giusta ponderazione dei beni in gioco: di conseguenza, solo lui potrebbe
decidere della moralità della sua scelta. Lo Stato, perciò,
nell'interesse della convivenza civile e dell'armonia sociale, dovrebbe
rispettare questa scelta, giungendo anche ad ammettere l'aborto e l'eutanasia.
Si pensa, altre volte, che la legge civile non possa esigere che tutti
i cittadini vivano secondo un grado di moralità più elevato
di quello che essi stessi riconoscono e condividono. Per questo la legge
dovrebbe sempre esprimere l'opinione e la volontà della maggioranza
dei cittadini e riconoscere loro, almeno in certi casi estremi, anche
il diritto all'aborto e all'eutanasia. Del resto, la proibizione e la
punizione dell'aborto e dell'eutanasia in questi casi condurrebbero inevitabilmente
— così si dice — ad un aumento di pratiche illegali:
esse, peraltro, non sarebbero soggette al necessario controllo sociale
e verrebbero attuate senza la dovuta sicurezza medica. Ci si chiede, inoltre,
se sostenere una legge concretamente non applicabile non significhi, alla
fine, minare anche l'autorità di ogni altra legge.
Nelle opinioni più radicali, infine, si giunge a sostenere che,
in una società moderna e pluralistica, dovrebbe essere riconosciuta
a ogni persona piena autonomia di disporre della propria vita e della
vita di chi non è ancora nato: non spetterebbe, infatti, alla legge
la scelta tra le diverse opinioni morali e, tanto meno, essa potrebbe
pretendere di imporne una particolare a svantaggio delle altre.
In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente
diffusa l'opinione secondo la quale l'ordinamento giuridico di una società
dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza
e, pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa
riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene addirittura che una verità
comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà
dei cittadini — che in un regime democratico sono ritenuti i veri
sovrani — esigerebbe che, a livello legislativo, si riconosca l'autonomia
delle singole coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme che in
ogni caso sono necessarie alla convivenza sociale, ci si adegui esclusivamente
alla volontà della maggioranza, qualunque essa sia. In tal modo,
ogni politico, nella sua azione, dovrebbe separare nettamente l'ambito
della coscienza privata da quello del comportamento pubblico.
Si registrano, di conseguenza, due tendenze, in apparenza diametralmente
opposte. Da un lato, i singoli individui rivendicano per sé la
più completa autonomia morale di scelta e chiedono che lo Stato
non faccia propria e non imponga nessuna concezione etica, ma si limiti
a garantire lo spazio più ampio possibile alla libertà di
ciascuno, con l'unico limite esterno di non ledere lo spazio di autonomia
al quale anche ogni altro cittadino ha diritto. Dall'altro lato, si pensa
che, nell'esercizio delle funzioni pubbliche e professionali, il rispetto
dell'altrui libertà di scelta imponga a ciascuno di prescindere
dalle proprie convinzioni per mettersi a servizio di ogni richiesta dei
cittadini, che le leggi riconoscono e tutelano, accettando come unico
criterio morale per l'esercizio delle proprie funzioni quanto è
stabilito da quelle medesime leggi. In questo modo la responsabilità
della persona viene delegata alla legge civile, con un'abdicazione alla
propria coscienza morale almeno nell'ambito dell'azione pubblica.
Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo etico che
contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. Non manca chi
ritiene che tale relativismo sia una condizione della democrazia, in quanto
solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone,
e adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali, considerate
oggettive e vincolanti, porterebbero all'autoritarismo e all'intolleranza.
Ma è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare
quali equivoci e contraddizioni, accompagnati da terribili esiti pratici,
si celino in questa posizione. È vero che la storia registra casi
in cui si sono commessi dei crimini in nome della «verità».
Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si
sono commessi e si commettono anche in nome del «relativismo etico».
Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità
della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora
nata, non assume forse una decisione «tirannica» nei confronti
dell'essere umano più debole e indifeso? La coscienza universale
giustamente reagisce nei confronti dei crimini contro l'umanità
di cui il nostro secolo ha fatto così tristi esperienze. Forse
che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi
da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?
In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a
farne un surrogato della moralità o un toccasana dell'immoralità.
Fondamentalmente, essa è un «ordinamento» e, come tale,
uno strumento e non un fine. Il suo carattere «morale» non
è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale
a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè
dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve.
Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore
della democrazia, ciò va considerato un positivo «segno dei
tempi», come anche il Magistero della Chiesa ha più volte
rilevato. Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che
essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente
la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti
intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione del «bene
comune» come fine e criterio regolativo della vita politica.
Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli
«maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una
legge morale obiettiva che, in quanto «legge naturale» iscritta
nel cuore dell'uomo, è punto di riferimento normativo della stessa
legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva,
lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali
della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle
sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica
dei diversi e contrapposti interessi.
Qualcuno potrebbe pensare che anche una tale funzione, in mancanza di
meglio, sia da apprezzare ai fini della pace sociale. Pur riconoscendo
un qualche aspetto di verità in una tale valutazione, è
difficile non vedere che, senza un ancoraggio morale obiettivo, neppure
la democrazia può assicurare una pace stabile, tanto più
che la pace non misurata sui valori della dignità di ogni uomo
e della solidarietà tra tutti gli uomini è non di rado illusoria.
Negli stessi regimi partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi
avviene spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più
capaci di manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la formazione
del consenso. In una tale situazione, la democrazia diventa facilmente
una parola vuota.
Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una
sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali
e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano
ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto,
che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai
creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare
e promuovere.
Occorre riprendere, in tal senso, gli elementi fondamentali della visione
dei rapporti tra legge civile e legge morale, quali sono proposti dalla
Chiesa, ma che pure fanno parte del patrimonio delle grandi tradizioni
giuridiche dell'umanità.
Certamente, il compito della legge civile è diverso e di ambito
più limitato rispetto a quello della legge morale. Però
«in nessun ambito di vita la legge civile può sostituirsi
alla coscienza né può dettare norme su ciò che esula
dalla sua competenza», che è quella di assicurare il bene
comune delle persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro
fondamentali diritti, la promozione della pace e della pubblica moralità.
Il compito della legge civile consiste, infatti, nel garantire un'ordinata
convivenza sociale nella vera giustizia, perché tutti «possiamo
trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità»
(1 Tm 2, 2). Proprio per questo, la legge civile deve assicurare per tutti
i membri della società il rispetto di alcuni diritti fondamentali,
che appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva
deve riconoscere e garantire. Primo e fondamentale tra tutti è
l'inviolabile diritto alla vita di ogni essere umano innocente. Se la
pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto
provocherebbe, se proibito, un danno più grave, essa non può
mai accettare però di legittimare, come diritto dei singoli —
anche se questi fossero la maggioranza dei componenti la società
—, l'offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento
di un loro diritto così fondamentale come quello alla vita. La
tolleranza legale dell'aborto o dell'eutanasia non può in alcun
modo richiamarsi al rispetto della coscienza degli altri, proprio perché
la società ha il diritto e il dovere di tutelarsi contro gli abusi
che si possono verificare in nome della coscienza e sotto il pretesto
della libertà.
Nell'Enciclica Pacem in terris, Giovanni XXIII aveva ricordato in proposito:
«Nell'epoca moderna l'attuazione del bene comune trova la sua indicazione
di fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti precipui
dei poteri pubblici consistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare,
comporre, tutelare e promuovere quei diritti; e nel contribuire, di conseguenza,
a rendere più facile l'adempimento dei rispettivi doveri. "Tutelare
l'intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole
il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico
potere". Per cui ogni atto dei poteri pubblici, che sia o implichi
un misconoscimento o una violazione di quei diritti, è un atto
contrastante con la loro stessa ragion d'essere e rimane per ciò
stesso destituito d'ogni valore giuridico».
In continuità con tutta la tradizione della Chiesa è anche
la dottrina sulla necessaria conformità della legge civile con
la legge morale, come appare, ancora una volta, dall'enciclica citata
di Giovanni XXIII: «L'autorità è postulata dall'ordine
morale e deriva da Dio. Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni
siano in contrasto con quell'ordine, e quindi in contrasto con la volontà
di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza...; in tal caso,
anzi, chiaramente l'autorità cessa di essere tale e degenera in
sopruso». È questo il limpido insegnamento di san Tommaso
d'Aquino, che tra l'altro scrive: «La legge umana in tanto è
tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla
legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione,
la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge
e diviene piuttosto un atto di violenza». E ancora: «Ogni
legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva
dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto
con la legge naturale, allora non sarà legge bensì corruzione
della legge».
Ora la prima e più immediata applicazione di questa dottrina riguarda
la legge umana che misconosce il diritto fondamentale e fontale alla vita,
diritto proprio di ogni uomo. Così le leggi che, con l'aborto e
l'eutanasia, legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti
sono in totale e insanabile contraddizione con il diritto inviolabile
alla vita proprio di tutti gli uomini e negano, pertanto, l'uguaglianza
di tutti di fronte alla legge. Si potrebbe obiettare che tale non è
il caso dell'eutanasia, quando essa è richiesta in piena coscienza
dal soggetto interessato. Ma uno Stato che legittimasse tale richiesta
e ne autorizzasse la realizzazione, si troverebbe a legalizzare un caso
di suicidio-omicidio, contro i principi fondamentali dell'indisponibilità
della vita e della tutela di ogni vita innocente. In questo modo si favorisce
una diminuzione del rispetto della vita e si apre la strada a comportamenti
distruttivi della fiducia nei rapporti sociali.
Le leggi che autorizzano e favoriscono l'aborto e l'eutanasia si pongono
dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro
il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità
giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio
perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società
ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più
frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare
il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l'aborto
o l'eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile,
moralmente obbligante.
L'aborto e l'eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può
pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun
obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo
di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. Fin dalle origini
della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il
dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite
(cf. Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente
che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At
5, 29). Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle
minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di resistenza
al comando ingiusto dell'autorità. Al faraone, che aveva ordinato
di far morire ogni neonato maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero.
Esse «non fecero come aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono
vivere i bambini» (Es 1, 17). Ma occorre notare il motivo profondo
di questo loro comportamento: «Le levatrici temettero Dio»
(ivi). È proprio dall'obbedienza a Dio — al quale solo si
deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta sovranità
— che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste
degli uomini. È la forza e il coraggio di chi è disposto
anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza
che «in questo sta la costanza e la fede dei santi» (Ap 13,
10).
Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella
che ammette l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito conformarsi
ad essa, «né partecipare ad una campagna di opinione in favore
di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio
voto».
Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui
un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più
restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati,
in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore
o messa al voto. Simili casi non sono rari. Si registra infatti il dato
che mentre in alcune parti del mondo continuano le campagne per l'introduzione
di leggi a favore dell'aborto, sostenute non poche volte da potenti organismi
internazionali, in altre Nazioni invece — in particolare in quelle
che hanno già fatto l'amara esperienza di simili legislazioni permissive
— si vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso ipotizzato,
quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge
abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all'aborto
fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno
a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne
gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica.
Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita
a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo
di limitarne gli aspetti iniqui.
L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente
retti di fronte a difficili problemi di coscienza in materia di collaborazione
in ragione della doverosa affermazione del proprio diritto a non essere
costretti a partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta le scelte
che si impongono sono dolorose e possono richiedere il sacrificio di affermate
posizioni professionali o la rinuncia a legittime prospettive di avanzamento
nella carriera. In altri casi, può risultare che il compiere alcune
azioni in se stesse indifferenti, o addirittura positive, previste nell'articolato
di legislazioni globalmente ingiuste, consenta la salvaguardia di vite
umane minacciate. D'altro canto, però, si può giustamente
temere che la disponibilità a compiere tali azioni non solo comporti
uno scandalo e favorisca l'indebolirsi della necessaria opposizione agli
attentati contro la vita, ma induca insensibilmente ad arrendersi sempre
più ad una logica permissiva.
Per illuminare questa difficile questione morale occorre richiamare i
principi generali sulla cooperazione ad azioni cattive. I cristiani, come
tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave
dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle
pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto
con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è
mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica
quando l'azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione
che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione
diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione
dell'intenzione immorale dell'agente principale. Questa cooperazione non
può mai essere giustificata né invocando il rispetto della
libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile
la prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie
esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può
mai sottrarsi e sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso
(cf. Rm 2, 6; 14, 12).
Rifiutarsi di partecipare a commettere un'ingiustizia è non solo
un dovere morale, ma è anche un diritto umano basilare. Se così
non fosse, la persona umana sarebbe costretta a compiere un'azione intrinsecamente
incompatibile con la sua dignità e in tal modo la sua stessa libertà,
il cui senso e fine autentici risiedono nell'orientamento al vero e al
bene, ne sarebbe radicalmente compromessa. Si tratta, dunque, di un diritto
essenziale che, proprio perché tale, dovrebbe essere previsto e
protetto dalla stessa legge civile. In tal senso, la possibilità
di rifiutarsi di partecipare alla fase consultiva, preparatoria ed esecutiva
di simili atti contro la vita dovrebbe essere assicurata ai medici, agli
operatori sanitari e ai responsabili delle istituzioni ospedaliere, delle
cliniche e delle case di cura. Chi ricorre all'obiezione di coscienza
deve essere salvaguardato non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi
danno sul piano legale, disciplinare, economico e professionale.
La democrazia non può mai legittimare, come diritto dei singoli,
l'offesa ad altre persone attraverso la negazione dei loro diritti fondamentale
come quello alla vita.
Diritto e morale
Il diritto positivo è opera degli uomini e potrebbe essere imperfetto,
mentre il diritto naturale si ricava dalla natura, dalla ragione o da
Dio. La «legge naturale» iscritta nel cuore dell'uomo, è
punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Il richiamo
al diritto naturale deve avvenire quando si è in presenza di una
legge ingiusta, che pone quindi il problema della sua validità
o meno.
Il compito della legge civile è quello di assicurare il bene comune
delle persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali
diritti. Garantendo un'ordinata convivenza sociale nella vera giustizia,
perché tutti «possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla
con tutta pietà e dignità». Proprio per questo, la
legge civile deve assicurare per tutti i membri della società il
rispetto di alcuni diritti fondamentali, che appartengono nativamente
alla persona e che qualsiasi legge positiva deve riconoscere e garantire.
Primo e fondamentale tra tutti è l'inviolabile diritto alla vita
di ogni essere umano innocente.
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